Osservando il traffico frenetico, tra un clacson, un’accelerata, una corsa pedonale per attraversare la strada, sento affacciarsi una domanda: sono gli stili di vita della società contemporanea a imporre ritmi pressanti o l’origine della fretta è nella natura umana? Sembra così difficile rallentare il ritmo, godersi l’attesa, ricercare la quiete.
Forse tale questione non caratterizza solamente il contesto attuale. Ancora diversi secoli fa il filosofo francese Blaise Pascal scriveva: “quando mi sono messo a considerare le diverse agitazioni degli esseri umani, ho scoperto che tutta l’infelicità deriva da una sola cosa e cioè dal non riuscire a stare in silenzio nella propria stanza”. Il pensatore considera come l’uomo, di fronte ai problemi fondamentali, alle domande esistenziali tende a reagire “divertendosi”, dove con questo termine non si indica lo svago sano e rigenerante bensì il distogliere l’attenzione dalla direzione giusta (di-vertere). Aggiunge: “Un segreto istinto, riflesso della percezione delle loro continue miserie, li spinge a cercare lo svago e l’occupazione fuori di loro; mentre un altro istinto segreto, residuo della grandezza della propria dignità, fa conoscere loro che la felicità vera non si trova che nella quiete, non nel trambusto. Da questi due istinti opposti si forma in essi un progetto confuso, nascosto alla loro vista nel fondo dell’anima, che li spinge a cercare la quiete mediante l’agitazione e a immaginare sempre che la soddisfazione che loro manca, arriverà se, superando qualche difficoltà che pur prevedono, potranno aprirsi per questa via la porta della quiete. Così scorre tutta la vita».
Se l’origine della fretta è nella natura umana, può darsi che l’attuale situazione si sia incancrenita con il progresso tecnologico? Un processo che porta sì a vantaggi ma che forse può anche mascherare antiche paure, vulnerabilità, solitudine, domande di senso? Come uscire da questo rischio? Forse abbiamo un bisogno urgente di rallentare, di fermarci, di sostare e fare silenzio. Un bisogno che al contempo comprende una resistenza in quanto non è facile stare senza fare, non ci è semplice fare esperienza dell’istante anziché abitare il passato o il futuro, ci è difficile sostare ascoltando il silenzio senza riempirlo di suoni e di voci. Certamente ci spaventa l’esperienza del silenzio perché può aprirci ad una sorta “di vuoto”, un vuoto che in realtà corrisponde alla nostra identità più radicale in quanto non rappresenta altro che pura capacità di recepire e accogliere. Il silenzio è quindi un invito a entrare, ascoltare, accoglier, saper stare qui e ora; potremmo dire che si tratta di una pratica di ri-unificazione, sostare in un’esperienza non passiva bensì profondamente attiva.
Ascoltare e accogliere hanno una radice comune e l’invito ad ascoltare è il primo comandamento indicato nell’Antico Testamento, “Ascolta Israele”; Dio può entrare solo in ciò che è aperto, vuoto e accogliente. Essere silenziosi significa abitare tutte le nostre sensazioni, stare con tutta la realtà così come ci viene incontro senza fuggire. Ascoltare e accoglierla fiduciosamente accogliendo in essa quell’Infinito, quella Vita che misteriosamente ci si dona e che si manifesta nella nostra vita.